FREEZE – riflessioni psicologiche su storie di quarantena

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Progetto di Francesca Sangalli e Manuela Aloni

© 2020. Tutti i diritti sono riservati

  È da poco scoppiata un’epidemia, guardo la televisione angosciata. Mi assale un terrore paralizzante che avvolge corpo e mente, il mio cuore non pulsa, lo scorrere del sangue nelle vene e nelle arterie si ferma. Resto semplicemente qui, immobile, con gli occhi ben aperti, vedo i confini della mia stanza, respiro in modo irregolare, non ho neanche il coraggio di alzarmi. Bisognerà far qualcosa: comprare da mangiare, provvedere a pulire la casa, recuperare in farmacia qualche mascherina. Prendo il cellulare e, per un tempo lunghissimo, mi immergo nella lettura dei social: alcune persone provano a difendersi cercando disinfettanti, saponi, anche io dovrei provare a reagire. Mi sforzo con la mente di dire alle gambe: su alziamoci! Niente… nessun muscolo si attiva e più penso che devo assolutamente fare qualcosa e meno riesco a muovermi. Mi viene in mente una cosa che ho sentito raccontare riguardo alle donne stuprate: donne turbate dal loro immobilismo di fronte all’aggressione, le rivedo che scuotono la testa e non si spiegano l’accaduto: “Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a far nulla”. Ecco cosa mi sta accadendo: passo dei giorni in questo stato ad ascoltare le brutture della pandemia, i morti, gli ospedali, i familiari in lacrime, mi fa male ossessionarmi, ma… niente, non riesco a staccare l’attenzione e prendere aria, ho paura per me, per gli altri, per il mondo…

Mi rassicura solo l’idea di starmene chiusa in una stanza con le mie cose e non avere contatti con nessuno. Nemmeno al telefono. Lascio andare a vuoto la suoneria fingendo di non esserci. L’idea di parlare con qualcuno mi pesa come un macigno. Sarà perché temo qualche brutta notizia, qualche morto, qualche peggioramento, oppure temo che mi si chieda di uscire e non so come spiegare che non ne ho nessuna intenzione, che, anzi vorrei che tutti restassero fermi.

 Adesso a distanza di una settimana la situazione si è un po’ sciolta dentro di me, anche se fuori si è aggravata. Le mie peggiori paure sono state confermate da scienziati e politici, ma almeno so che nessuno troverà esagerato il mio ritiro. Adesso il problema è un altro: questa quarantena durerà a lungo e devo tentare di riempire il tempo in qualche modo. Provo a leggere un libro che ho sul comodino, ma la concentrazione per farlo continua ad andare via, inutile estraniarmi in un romanzo, il presente è “troppo Presente”, troppo pesante, mi arrendo al primo tentativo anche dopo aver provato a chiedere dei rimborsi per un viaggio che non posso più fare, rimando la noia di recuperare un documento che mi serve. Ho questa sensazione di collasso: tutto il mio mondo è bombardato, bruciato, contagiato e compare all’improvviso dentro la mia testa una colonna sonora, è una canzone dei Subsonica, dice: “fuori è un mondo fragile ma tutto qui cade incantevole…”. È come se fossi protagonista del video e stessi assistendo al mondo che crolla, osservo inerme l’apocalisse. Tutti i social e quei messaggi che prima mi tenevano in contatto con gli altri ora mi irritano, mi sembrano un chiacchiericcio dannoso. Non ho nemmeno voglia di ridere, di ascoltare una barzelletta o prestare attenzione a un meme ridicolo, perché scherzare davanti a tutta questa sofferenza mi offende. Non capisco questi che hanno bisogno di esprimersi con parole, canzoni, poesie, video, ma perché a me non viene? Perché non partecipo?  Mi sento più sola di prima circondata da un mondo di iperattivi chiusi in casa che annegano lo sconforto con mille iniziative. So che anche io devo scrivere un progetto di lavoro e consegnare… mi metto davanti lo schermo e lì… niente. Scrivo una frase e la cancello mille volte, perde tutto di senso, mi sembra qualunque progetto sia inutile da pianificare.

Ancora una volta, resto ferma.

Panico.

Lettera di Caterina D.

Ciò che Caterina descrive può essere letto come una reazione di Freezing, una sorta di congelamento, di blocco quasi totale delle attività del nostro corpo e della nostra mente non strettamente necessarie; si tratta di una difesa volta a canalizzare tutte le nostre energie nella ricerca di un pericolo che sentiamo presente e contemporaneamente a renderci quasi impercettibili ad esso, nel tentativo di scampare all’attacco.

In quanto esseri umani portiamo nel nostro bagaglio ereditario tutto ciò che ha permesso ai nostri antenati di sopravvivere nei millenni e che ogni generazione contribuisce ad arricchire. Una quota di questo prezioso patrimonio ha origini molto antiche e ben sedimentate ed è ritrovabile anche nelle altre specie animali; in essa sono stati conservati anche i meccanismi di difesa più efficaci da attivare di fronte al pericolo: Freeze (Congelamento), Flight (Fuga), Fight (Attacco).

Queste reazioni istintive di auto protezione si attivano automaticamente, a volte in sequenza, altre volte singolarmente, ogni volta che ci sentiamo minacciati e in pericolo di vita. Si tratta di meccanismi fisiologici, che, però, possono diventare disfunzionali nel momento in cui si attivano eccessivamente o in maniera prolungata, diventando essi stessi una minaccia per l’individuo.

Il Freezing di Caterina, la sua immobilità, l’iperallerta ed il terrore l’hanno imprigionata nella sua stanza, nel tentativo di proteggerla da un nemico invisibile che sicuramente si è fatto largo nella sua e nella nostra realtà e di cui siamo fin troppo informati, ma che non necessariamente è fuori dalla sua porta in attesa di colpirla. Caterina vive l’impossibilità della fuga e del combattimento con grande senso di impotenza ed inconsciamente il suo sistema di difesa sembra portarla a tentare di simulare la sua non esistenza per cercare di evitare la morte reale.

Ma anche nelle situazioni più critiche la nostra mente cerca il modo di guidarci verso un maggior benessere e la colonna sonora che è comparsa ultimamente nei pensieri di Caterina potrebbe rappresentare un segnale che le indica la via da percorrere. Il ritornello della canzone, infatti, ha un verso in più rispetto ai due citati: “Fuori è un giorno fragile, ma tutto qui cade incantevole… come quando resti con me”. Caterina troverà la sua personale lettura di queste parole, ma credo sia interessante notare che normalmente in un bambino ciò che permette di disattivare il sistema di difesa è proprio la presenza di un legame affettivo rassicurante.

Aloni Manuela, psicologa psicoterapeuta EMDR.

Violenza psicologica

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violenza psicologica

Esiste una violenza forse peggiore della violenza fisica: la violenza psicologica. Sono quelle parole umilianti, svalutanti, sprezzanti che lentamente e subdolamente ti penetrano nella mente, prendono il controllo dei tuoi pensieri e ti portano ad identificarti con esse. Così, piano piano, senza accorgertene, inizi a credere che quelle parole siano vere: che non vali abbastanza, che non hai la capacità di prenderti cura di te e magari dei tuoi figli. Pensi di non avere via d’uscita, perché quelle parole ti hanno convinta che l’inferno in cui ti trovi è solo colpa tua. E parlarne con qualcuno è quasi impensabile, perché hai paura che anche gli altri possano pensare quelle cose di te e giudicarti male.

All’inizio le parole erano come una brezza leggera, che scompiglia i capelli, ma in fondo non è poi così fastidiosa. Però nel tempo si sono trasformate in un vortice sempre più violento, forse non più solo verbale, sono diventate un tornado che ha completamente distrutto la tua autostima, il tuo mondo affettivo e le tue prospettive future. Ti hanno portato a sentirti sola ed impotente, circondata da persone che pensi non potranno mai capirti. Paradossalmente sono proprio quelle parole che ti incatenano dove sei e ti tolgono la forza per ribellarti.

Ma, se guardi bene, dentro di te troverai una piccola luce che continua a brillare, nonostante tutto, un’energia vitale che combatte strenuamente per tornare ad illuminarti ed aiutarti a ritrovare te stessa. Dalle una possibilità. Permettile di indicarti la strada, tra i meandri oscuri e spaventosi che dovrai attraversare per uscire da tutto questo. E così forse ti accorgerai anche che ci sono altre persone intorno a te, pronte a tenderti la mano, a camminare al tuo fianco per sostenerti e supportarti ogni volta che ne avrai bisogno. E alla fine di tutto potresti scoprire che puoi contare su te stessa, che puoi essere amata e amarti per ciò che sei e permetterti di tornare a vivere.

O di continuare a farlo.

DAL 1° GIUGNO 2020 SI RIPRENDONO LE SEDUTE IN PRESENZA!

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Dopo un lungo periodo di lavoro esclusivamente online, dal 1° giugno 2020 riprenderò l’attività in presenza nel mio studio di Trezzano sul Naviglio per quelle persone che presentano una situazione di urgente criticità, ma che non hanno modo di usufruire delle video-sedute.  Sarà, però, necessario seguire alcune norme igieniche indicate dal Ministero della Salute, dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’ATS Milano e precisamente:

  1. Le sedute in studio non verranno effettuate in caso di presenza di sintomi simil-influenzali (febbre superiore a 37,5 °C, tosse, raffreddore, mal di gola, difficoltà respiratoria, malessere) o con soggetti in quarantena, anche se asintomatici.
  2. All’ingresso, verrà misurata la temperatura, si richiederà di disinfettare le mani con soluzione idroalcolica e di indossare correttamente la mascherina chirurgica o ffp2. In caso il paziente avesse una mascherina di altro tipo (es. mascherine in tessuto), gli sarà richiesto di sostituirla con una chirurgica monouso che provvederò a fornirgli.
  3. Si eviteranno abbracci e strette di mano.
  4. Gli appuntamenti verranno scaglionati attentamente per garantire l’accesso di un solo paziente per volta e per avere il tempo di arieggiare e sanificare gli oggetti di maggior uso tra una seduta e l’altra (maniglie, interruttori, porte, divano, etc.).
  5. Per casi straordinari in cui il paziente necessiti di assistenza o accompagnamento (ad esempio nel caso di minori), l’accesso sarà limitato ad un solo accompagnatore.
  6. Durante i colloqui si terrà una distanza di almeno 2 metri.

Tutto scorre

Yellowstone fiume

Tutto scorre, come l’acqua del fiume. Dovremmo lasciare che sia così. Tendiamo ad ancorarci a ciò che conosciamo e ci è familiare, perché abbiamo bisogno per natura di punti fermi, di sicurezze. A volte, però, pur di averli, restiamo aggrappati con tutte le nostre forze a scogli che solo illusoriamente ci tengono a galla, ma che in realtà possono trasformarsi in pericolose trappole, che ci impediscono di vivere pienamente. Quando prendiamo consapevolezza che ciò sta accadendo, dovremmo trovare il coraggio e la forza di lasciare andare, di lasciarci trasportare dalla corrente, di sentirci temporaneamente in balia delle onde, per cercare un punto d’appoggio più solido o per raggiungere acque più calme.
La vita scorre. E l’unico modo per poterla vivere davvero è scorrere con lei, lasciandoci trasformare dal viaggio. Dovremmo permettere che qualcosa rimanga dietro di noi e che qualcos’altro ci arricchisca e ci accompagni lungo il percorso. Almeno per un po’.

(foto di Roberto Aloni)

“Ma che cosa devo dire?”

A volte di fronte ad uno psicoterapeuta oppure all’idea di incontrarne uno ci chiediamo:”Ma che cosa devo dire?”
Ciò che si sente. Ciò che viene. Non ci sono obblighi. In un percorso di psicoterapia si impara pian piano a parlare con sé stessi, ad ascoltarsi senza giudicarsi, a lasciar fluire liberamente eloquio, pensiero ed emozione. Il terapeuta ci accompagna in questo viaggio d’esplorazione interiore, ma siamo noi di volta in volta a trovare il sentiero. Lo psicologo ci ascolterà, accoglierà ciò che emerge da noi, ci aiuterà a porci nuove domande ed a scoprire nuove prospettive da cui osservarsi; ma non ci darà le risposte che cerchiamo: ci porterà a trovarle dentro di noi. 

Spesso capita che qualcuno cerchi di imporci la sua visione della vita o di convincerci a seguire i suoi consigli;  altrettanto frequentemente noi stessi cerchiamo qualcuno che ci dica se stiamo facendo le giuste scelte o che ci indichi cosa fare. 

Siamo abituati a conversazioni basate sull’esprimere e ricevere opinioni, sul decretare cosa è giusto e cosa è sbagliato, qualunque sia l’argomento, e ci aspettiamo che l’altro esponga il suo punto di vista. 

Così, trovarsi di fronte ad un terapeuta che ascolta realmente, con silenziosa attenzione, le nostre parole -ed insieme ad esse tutto il nostro essere-, in un clima di sospensione del giudizio, può paradossalmente essere spiazzante all’inizio e rendere più difficile la comunicazione. Veniamo di fatto messi di fronte a noi stessi, invitati a lasciar cadere tutte le etichette proprie ed altrui che nel tempo ci si sono attaccate addosso. In questo modo, in realtà, abbiamo la possibilità di ritrovare la nostra essenza e riscoprire un atteggiamento verso noi stessi e verso il mondo più profondo e consapevole. Perciò, l’importante non è avere qualcosa da dire al terapeuta, bensì predisporsi ad  ascoltare ciò che noi stessi abbiamo da dirci.

Run.

Non sapeva correre. È così: fino ai 20 anni non ne era capace ed era convinta che fosse una sua caratteristica, non modificabile. Le pesava, la faceva sentire “difettosa”, ma non vedeva possibilità di cambiamento. Poi è entrata nella sua vita una persona speciale, colui che poi sarebbe diventato suo marito, che le ha aperto gli occhi: era lei che si stava auto-limitando, che si stava trattenendo e che non si fidava del suo corpo. Pian piano ha imparato a credere in sé stessa ed a lasciare che i movimenti fossero più sciolti e rilassati ed ha scoperto che anche lei poteva farlo. Le credenze negative che in passato  aveva costruito su sé stessa hanno, così, lasciato spazio a convinzioni positive e costruttive e si è sentita più libera e forte. 

Questa persona ha sperimentato quanto  la potenza della nostra mente può influire sulle nostre azioni, ingabbiandoci con pensieri limitanti o al contrario aprendoci porte in precedenza invisibili. Per spostare l’ago della bilancia, a volte può essere sufficiente un’esperienza di vita significativa, altre volte è necessario un percorso più mirato e professionale, ma la cosa importante è sempre darsi una possibilità. La spinta al benessere fa parte di noi, dobbiamo solo guardare  nella direzione giusta.

Terremoto: il trauma

Ci sono tragedie che sconvolgono l’anima e che fanno echeggiare la loro potenza distruttrice e mortifera anche a migliaia di chilometri di distanza dai luoghi direttamente colpiti. Le notizie che si susseguono in queste ore descrivono la devastazione che ha coinvolto il centro Italia e rilevano come le sue dimensioni siano dolorosamente in crescita, lacerando il cuore anche a chi ha solo appreso l’accaduto dai media. L’attenzione, giustamente, è tutta su chi ha perso la vita, i familiari, la casa e deve affrontare un futuro pieno di dubbi, paure ed incognite ed in loro favore si stanno attivando tante iniziative di sostegno a vari livelli. Ma il mio pensiero corre anche a qualcun altro. Tanti sono i soccorritori partiti da tutta Italia per prestare il loro aiuto, accettando il rischio di diventare a loro volta vittime del terremoto, non solo per la possibilità di ulteriori scosse o cedimenti, ma anche per i risvolti psicologici che interventi del genere portano con sé. Trovarsi di fronte a paesi interamente distrutti, estrarre dalle macerie persone che non ce l’hanno fatta, sentire per ore le urla di chi ancora è là sotto e vedere sui volti dei sopravvissuti il terrore e la disperazione sono a loro volta esperienze altamente traumatiche, che segnano indelebilmente chi le vive e che possono rendergli difficile il ritorno ad una vita normale. Flashback, incubi, pensieri intrusivi, sforzi per evitare stimoli che rimandano a quanto vissuto, fatica a ricordare, eccessiva irritabilità e reattività, senso di colpa ed emozioni negative sono solo alcuni dei segnali che evidenziano l’elevato livello di stress a cui si è stati sottoposti. Tali reazioni, molto frequenti tra chi ha avuto a che fare con eventi traumatici, rappresentano una risposta fisiologica del nostro organismo nel periodo immediatamente successivo al trauma e solitamente regrediscono spontaneamente col passare del tempo. In alcuni casi, però, possono protrarsi a lungo, con crisi d’ansia che incidono negativamente su uno o più ambiti di vita ed evolvono in un vero e proprio Disturbo da Stress Post-traumatico (PTSD). Quest’ultimo difficilmente riesce ad essere superato senza una terapia.

L’EMDR può essere applicato già nella fase acuta dell’evento, al fine di rendere più tollerabile l’elevata attivazione fisiologica, e rappresenta un trattamento d’elezione nelle fasi successive e nei casi di insorgenza di disturbi più complessi.

Non essendomi possibile offrire aiuto in loco, ho scelto di mettermi a disposizione dei soccorritori partiti dalla provincia di Milano che nei prossimi mesi dovessero sentire il bisogno di un supporto psicologico.

Che cos’ è l’EMDR?

Segui le mie dita.

Francine Shapiro lo scoprì per caso nel 1987. Passeggiando in un parco, assorta nei suoi pensieri, si rese conto che determinati movimenti oculari, che stava involontariamente attuando, permettevano una rapida riduzione del livello di stress connesso a ricordi traumatici. Così iniziò il percorso di ricerca e studi scientifici che hanno portato alla strutturazione della terapia EMDR (Eye Movement Desensitization And Reprocessing – Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) e del modello teorico AIP (Adaptive Information Processing – Elaborazione adattiva dell’informazione) che ne sta alla base. 

Nel 2013 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito il metodo nelle nuove linee guida per il trattamento dei disturbi psicologici connessi ad eventi traumatici, riconoscendone così l’efficacia, ed oggi gli psicoterapeuti esperti in EMDR, sono spesso in prima linea nel fornire supporto psicologico in situazioni di emergenza.

La stimolazione bilaterale data dai movimenti oculari guidati dal terapeuta, ottenibile anche con tocchi o suoni alternati, fa sì che l’esperienza traumatica, sia essa recente o lontana nel tempo, venga rapidamente ed efficacemente elaborata. L’EMDR, dunque, è una valida strada per ricollocare il trauma nel tempo a cui appartiene – il passato -, rendendolo di fatto solo un lontano ricordo.

La psicoterapia per riappropriarsi di sé

Io non credo in queste cose“. 

Ho incontrato diverse persone che, dopo aver saputo quale fosse la mia professione, mi hanno esplicitato con fermezza il loro scetticismo rispetto alla psicoterapia e all’EMDR, dubitando sia della loro efficacia che dei loro stessi assunti di base. Ogni volta che capita, me ne chiedo il motivo e mi domando se in qualche modo non sia un tentativo di distanziarsi dalla propria interiorità e dalla possibilità  di cambiamento. Forse non in tutti i casi questa lettura potrà essere valida, ma, laddove lo fosse, le parole “Io non ci credo” potrebbero rappresentare una modalità per evitare di doversi confrontare con elementi disturbanti, rimasti per qualche ragione non metabolizzati. 

Non affrontare questo tipo di materiale psichico, però, implica un continuo ed elevato dispendio di energie per tenerlo il più possibile lontano dalla coscienza, di fatto non ottenendo altro che conservarlo intatto in tutta la sua forza ed influenza. Decidere di lasciarlo emergere può spaventare e disorientare ed è in questo che -paradossalmente, per chi dice di non crederci- lo psicoterapeuta può essere d’aiuto, ponendosi come un compagno di viaggio che starà accanto e supporterà nei momenti più faticosi e duri, ma non sarà in lui che si dovrà credere, bensì in sé stessi. Rivolgersi ad un professionista che utilizza l’EMDR potrà rendere il percorso più rapido e diretto, sebbene ad alta intensità emotiva. Lungo la strada, pian piano s’imparerà a lasciar andare le zavorre inutili, a scoprire in sé nuove risorse e potenzialità e ad investire al meglio risorse ed energie. Alla fine del cammino, il materiale psichico disturbante non sarà più tale e ci si sarà riappropriati di sé stessi, della propria vita e del proprio futuro.